In questi giorni si parla tanto del prezzo delle ciliegie; un argomento di grande rilevanza per noi pugliesi, produttori di ciliegie di alta qualità. L’argomento “giusto prezzo”, però, non ci vede direttamente coinvolti solo per le ciliegie. Penalizzati dalla grande distanza dai “consumatori finali”, gli agricoltori pugliesi sono “costretti” ad accettare il prezzo loro imposto dai vari intermediari, grossisti e trasportatori.
Ma qual è, potrebbe o dovrebbe essere il prezzo equo e giusto di tutto ciò che viene venduto e comprato, oltre ai prodotti agricoli? L’argomento, già nel XII secolo, attirò la mente del più grande tra i filosofi religiosi, San Tommaso d’Aquino (1225-1274), nato in Italia ma cittadino europeo. Il primo dei filosofi e studiosi religiosi passati alla storia con il nome di Scolastici.
L’impero di Roma era scomparso da secoli ma non la dedizione alla “santità” della proprietà privata, codificata e stabilita nel Diritto Romano. Proprietà privata già fonte di innumerevoli insurrezioni contadine contro il potere dei proprietari terrieri e della rivoluzione francese; “la rivoluzione” per antonomasia del diciottesimo secolo. L’epoca imperiale romana, però, aveva lasciato una eredità molto più importante: il cristianesimo.
Il Cristianesimo, operando ed ampliando la preesistente tradizione del diritto e dell’insegnamento ebraici, ha influenzato, con tre effetti di lunga durata, la civiltà occidentale. Il primo con l’esempio: Gesù, figlio di un falegname, mostrò che non esisteva alcun diritto divino che giustificasse i privilegi della nascita dei ricchi e aristocratici. Agli umili, che lavoravano con le mani, non era impossibile raggiungere “il potere” . L’umile artigiano che conquistò una così grande fama e autorità, ha costituito un esempio che ha influenzato il pensiero occidentale nei duemila anni successivi. Gesù, con la scacciata dei cambiavalute e degli usurai dal Tempio legittimò la rivolta contro il potere economico malvagio od oppressivo.
Il secondo effetto è stato realizzato tramite l’indicazione di un “giusto” assetto sociale: l’dea di eguaglianza di tutti gli uomini. Tutti sono eguali in quanto figli di Dio, quindi tutti di conseguenza sono fratelli; indistinguibili, tra loro, razza, sesso, provenienza. Perciò ecco la diffidenza verso la ricchezza, elemento di differenziazione tra fratelli, in quanto fonte di maggiore prestigio, potere e piacere solo per alcuni. Alle perplessità sulla ricerca della ricchezza si aggiungevano quelle a proposito dell’istituzione della schiavitù, che sono rimaste fino ai tempi moderni. Il proprietario di schiavi cristiano e il ricco devoto hanno spesso cercato ed ottenuto (pagando!) speciali supporti teologici per giustificare la loro cattiva condotta.
Il terzo effetto, quello più “a proposito” del giusto prezzo delle ciliegie, s’incentra sull’economia in generale e sulla percezione dell’interesse. Per Gesù e per gli apostoli, che parlavano con orgoglio del sudore della fronte, il lavoro doveva essere compensato con un salario giusto. Se gli introiti del proprietario terriero non erano oggetto di critiche severe, l’originaria dottrina cristiana condannava fermamente l’esazione di un interesse. L’interesse veniva considerato un’estorsione a carico dell’imprudente, del povero o dello sfortunato, oppressi da bisogni e obblighi che andavano oltre le loro possibilità.
Molte delle menti più innovative dei successivi 1800 anni si sono impegnate nella ricerca di una giustificazione all’esazione di un interesse sui soldi prestati. I dubbi sulla correttezza del prestare denaro non sono mai stati completamente eliminati. Ancora oggi chi presta denaro è un personaggio perlomeno discutibile, se non addirittura da confinare ai margini della comunità affibbiandogli la spregiativa etichetta di usuraio. Solo per evidenti convenienze, negli ultimi tempi, si evita di legare questa qualifica al nome dei banchieri.
San Tommaso intimò di rispettare con estremo rigore il divieto assoluto, per i credenti in Cristo, di percepire l’interesse. Nella “Summa Theologiae” analizzò, a proposito dello statuto morale del commercio in generale, «La frode che si commette nelle compravendite». La sua condanna del commercio non era assoluta; nelle sue riflessioni filosofiche egli afferma: «Ora, come nota [Aristotele], ci sono due tipi di scambi. C’è uno scambio quasi naturale e necessario: in cui c’è la permuta tra merce e merce, oppure tra merce e danaro, per le necessità della vita [ …] Invece l’altra specie di scambio è tra danaro e danaro, o tra qualsiasi merce e danaro: non per provvedere alle necessità della vita, ma per ricavarne un guadagno. [… ] Ebbene, secondo [Aristotele] il primo tipo di scambio è degno di lode: poiché soddisfa a una esigenza naturale. Il secondo invece è giustamente vituperato»
Nel medioevo i mercati erano regolamentati da “venditori” riuniti in corporazioni; un elemento fortemente caratteristico della vita economica di città e paesi grandi e piccoli. Le corporazioni avevano numerosi obiettivi da raggiungere; innanzitutto esercitare un’influenza politica tramite la regolamentazione dei prezzi e dei salari dei lavoranti. A tale scopo garantivano l’onestà degli addetti e la qualità delle merci e delle lavorazioni. Si occupavano anche della sicurezza dei luoghi e promuovevano le occasioni d’intrattenimento collettivo come le fiere tenute in concomitanza di eventi e celebrazioni religiose.
Nel contesto medievale, il “prezzo” era determinato dalla capacità di contrattazione delle parti per raggiungere un accordo soddisfacente per entrambi; usanza oggi (purtroppo?) andata perduta. Raramente il, cosiddetto oggi, “prezzo di mercato” era predeterminato da qualche autorità o dalla assenza di concorrenza fra venditori. Era comunque chiara la disparità di potere contrattuale tra le parti, dovuta alla maggiore o minore misura di potere monopolistico determinato dalle corporazioni.
Queste situazioni di monopolio attirarono l’attenzione di San Tommaso d’Aquino, come già in Aristotele, sulla questione del prezzo equo o giusto. «Usare la frode per vendere una cosa a un prezzo più alto del giusto è sempre peccato. [… ] E quindi vendere a più o comprare a meno di quanto la cosa costa è un atto ingiusto e illecito». Applicare, chiedere, un prezzo equo era dunque ingiunto come un obbligo religioso al quale il cristiano doveva attenersi. Trasgredire comportava la condanna morale da parte della comunità e la punizione nel mondo perpetuo dell’aldilà.
Il concetto del giusto prezzo sopravvive ancora oggi; viene considerato equo o accettabile in quanto frutto di una libera contrattazione fra individui di pari dignità. Oppure esoso e ingiusto quando imposto da individui eccessivamente avidi che meritano l’accusa implicita di essere sfruttatori e profittatori.
Ciò che però neanche San Tommaso riuscì mai a stabilire sono le modalità con le quali è possibile determinare aprioristicamente un prezzo equo e giusto. Questa rimane una materia su cui compratori e venditori, pur se virtuosi cristiani osservanti, tenderanno, irresistibilmente, ad avere opinioni diverse.
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