Dove vanno i laureati africani:"lo sviluppo è la scienza diventata cultura"

Il Comitato Economico per l’Africa parla di 127.000 specialisti africani di alta competenza in meno tra 1960 e il 1989 cioè circa 4.000 ”perdite” all’anno. I paesi africani, in genere, conquistano l’indipendenza all’inizio degli anni Sessanta. La grande sfida è quella di eliminare l’amministrazione coloniale. I Governi,quindi, finanziano gli studi dei giovani che partono e buona parte, dopo la laurea, torna a servizio del proprio paese.

Gli  anni Ottanta invece segnano l’inizio della crisi economica per buona parte degli Stati Africani per cui i Governi non finanziano quasi più gli studi all’estero. Ora, mentre nei primi trenta anni di indipendenza, l’amministrazione dei paesi africani assicurava un impiego ai giovani che avevano studiato all’estero e che rientravano, con il passare del tempo, questo diviene sempre meno possibile per la saturazione della pubblica amministrazione. Dalla indipendenza all’inizio della crisi non si è, infatti, pensato ad uno sviluppo del settore privato come alternativa o come integrazione della pubblica amministrazione. Si potrebbe pensare che la fuga dei cervelli dipenda anche dalla scarsa qualità delle università africane.

E’ provato,invece, che molti Stati Africani dispongono di prestigiose strutture di formazione. Certamente una delle difficoltà con cui si confronta chi ha deciso di studiare fuori dalle frontiere nazionali è la concorrenza che deve affrontare quando pensa di rientrare. Non è affatto scontato che si possa trovare un posto di lavoro. Quelli che hanno fatto studi specializzati in patria, e che quindi conoscono bene la realtà locale, sono favoriti nelle selezioni. Chi parte rischia di diventare un perdente nella ricerca di un posto di lavoro in patria. La carenza di specialisti a livello locale obbliga le istituzioni a ricorrere alle competenze occidentali per colmare il vuoto.

L’Africa, ogni anno, chiede la consulenza di moltissimi specialisti occidentali (fino a 150.000), per una spesa lorda di 4 miliardi di dollari. Non si può, però,dire che non ci sono intellettuali e tecnici africani in grado di offrire prestazioni equivalenti. Appare chiaro che le amministrazioni nazionali, in genere, non sono capaci di valorizzare razionalmente le proprie risorse umane. La fuga dei professionisti della sanità, per esempio, causa grandi difficoltà a rispondere alle esigenze elementari delle popolazioni. Trentotto paesi su un totale di quarantasette non rispettano i parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che prescrivono circa 20 medici per 100.000 abitanti.

La fuga costante della mano d’opera qualificata accentua il divario scientifico e tecnologico. Si pensi che risiedono negli Stati Uniti più scienziati e ingegneri africani che non in Africa! Mano a mano che la classe media si restringe, e dunque contribuisce di meno alla raccolta degli introiti fiscali, ed anche all’iniziativa economica e sociale, la società diventa ancora più povera. Dopo quattro decenni di esodo il problema non è stato seriamente affrontato. Le strategie di rimpatrio sono risultate infruttuose. Credo che di rado un paese ospite chieda al laureato straniero quali sono le sue aspettative. C’è sempre un atteggiamento di diffidenza e di controllo. Oggi si parla, a proposito della diaspora africana, di “partecipazione virtuale”. Si dice, cioè, che l’immigrato qualificato può contribuire allo sviluppo del proprio paese anche senza ritornarci.

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