I tagliani? Tutti “chiacchiere e debito”

Parte 1°

 

Sono dei Sumeri (Iraq/Iran) le prime testimonianze storiche di “contabilità”. Per ogni pecora che usciva dall’ovile accantonavano in un mucchietto una piccola pietra, al ritorno del gregge toglievano una pietra per ogni pecora e il confronto era fatto. Per diversificare i vari mucchi di pietruzze, a seconda del tipo di bestiame che entrava e usciva dai recinti, iniziarono ad usare la possibilità dell’argilla di essere plasmata in forme che ricordavano gli animali stessi, poi iniziarono a formare, con l’argilla, delle “sacche” in cui conservare nel tempo tale contabilità. Queste sacche, piene di sassolini, chiamate imna“pietra d’argilla”, perché si indurivano – erano anche facilmente conservabili e trasportabili. I popoli che in seguito occuparono quei territori, assiri e babilonesi, spostandosi per i loro commerci sempre più verso il mediterraneo, diedero a quelle sacche il nome di abnu “pietra” – termine che i marinai latini trasposero in calculus, “sassolini”, da cui deriva il termine “calcolo”.

Sempre i sumeri, 4.000 anni fa, dalle rive del Tigri e dell’Eufrate ci hanno trasmesso le prime testimonianze di “contabilità” . Trascritti su migliaia di “tavolette” d’argilla, oggi è possibile conoscere quanti agnelli, piccioni o frumento era necessario offrire per tenersi buono il Re ed essere in pace con gli dèi. Non tutti, però, potevano sacrificare quanto esigeva la prassi religiosa e i sacerdoti del tempio, custodi del tesoro reale, iniziarono ad accettare figli e figlie (vergini) del debitore come pegno di una promessa di pagamento, tutti i debiti venivano trascritti su tavolette di creta “ufficializzate”  dal sigillo del tempio. Per gli insolventi erano previste pene durissime, dalla vendita come schiavi dei figli dati in pegno alla pena di morte. Furono sempre i sumeri, con i loro sacerdoti, che posero le basi della pratica del finanziamento commerciale basato sul “debito”. Utilizzando il “surplus”, da loro gestito, delle offerte al Re e agli dèi, oltre alle provviste di viveri necessari per il lungo viaggio, fornivano ai carovanieri che si avventuravano verso il mediterraneo, anche i pegni e gli “schiavi” non riscattati dai debitori come merce da vendere sui mercati. Inutile dire che anche i carovanieri lasciavano qualcuno dei loro figli in pegno per il pagamento del “prezzo” delle merci affidate in “conto vendita” più una percentuale sul guadagno. Il sigillo reale apposto sulle tavolette, conservate nel tesoro del tempio, non bastava, però, ad assicurare che i debitori “onorassero” quanto promesso. Serviva una minaccia più spaventosa delle pene corporali e i sacerdoti cosa potevano minacciare di più terribile se non “la dannazione eterna” per gli insolventi?
Bisognava però giustificare il tutto come se fosse un obbligo prescritto dagli dèi, sicuri esecutori del supplizio eterno e custodi dell’anima nell’aldilà. E da chi potevano trarre ispirazione i sacerdoti sumeri se non dalla vicina India, la terra mistica per antonomasia?

“Quando nasce, ogni essere è nato come un debito dovuto agli dèi,
ai santi, ai padri e agli uomini.
Se uno fa un sacrificio, è a causa di un debito dovuto agli dèi fin dalla nascita.
Se uno recita un testo sacro, è a causa di un debito dovuto ai santi.
Se uno desidera una prole, è a causa di un debito dovuto al padre dalla nascita.
Se uno offre ospitalità, è a causa di un debito dovuto agli uomini.”

“Brāhmaṇa dei cento percorsi” XI sec. A.c.
(commenti ai Rituali Veda – XVI sec. A. c.)

Messaggio che sulle sponde del Mediterraneo, dove i mercati si evolvevano e il peso dei debiti insoluti si faceva sempre più grande, diventa un saggio avvertimento per quel popolo che più volte nella sua storia aveva riscattato a caro prezzo la sua schiavitù:

“Il ricco domina sul povero e chi riceve prestiti è schiavo del suo creditore.”

Bibbia – Proverbi – 22,7 – VIII sec. a.c.

Antico e nuovo testamento si fondono in quella parte del Discorso della Montagna che tutti noi recitiamo:

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”
“Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.

Matteo 11,12 – 14,15 – I sec. d.c.

È la ricerca della benevolenza dei propri dèi che ispira da oltre 40 secoli la convinzione che pagare i propri debiti sia un obbligo propedeutico alla salvezza eterna. Per non bruciare all’inferno per l’eternità bisogna saldare il debito verso gli dèi e il Re: salvo sperare in una ricca donazione postuma degli eredi che possa salvare l’anima del defunto debitore insolvente.
Sono in molti, però, nei secoli successivi, che più preoccupati della loro vita terrena che delle minacce dei custodi del tempio, approfittano della perduta onorabilità di sacerdoti e sovrani per sfruttare, a loro vantaggio, il sempre più diffuso senso dell’onore. Sostituiscono monasteri e palazzi reali con le banche come destinatarie dell’obbligo salvifico della remissione del debito

“Datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi.”

Mayer Amschel Rothschild (1744 – 1812)

Capostipite della famiglia di banchieri che influenzano ancora oggi la finanza mondiale. Uno dei suoi nipoti era fra i principali finanziatori del Regno di Sardegna prima e del Regno d’Italia dopo. Il 10 marzo 1863 veniva approvato, su richiesta dell’allora Ministro delle Finanze Quintino Sella, un oneroso prestito di 700 milioni netti, collocati a 71 lire, per un totale nominale (comprese le provvigioni) di poco più di 1 miliardo di lire (all’epoca il bilancio statale non superava gli 8 miliardi). Il prestito fu concesso dal banchiere Rothschild di Parigi, per il collocamento sul mercato francese. Esso venne emesso al saggio effettivo di 7,04 lire, cioè a un tasso d’interesse molto elevato per quell’epoca.
A tale riguardo il senatore Siotto-Pintor nel dibattito parlamentare sulla “gestione” di tale debito, alla presenza del neo Presidente del Consiglio Marco Minghetti; concludeva:

“Il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell’Italia”

Atti Parlamentari, Discussioni del Senato,
sess. 1863-65, v. IV, p.3091.

Erano i primi anni del Regno d’Italia ma l’antica pratica dell’arricchirsi indebitando lo Stato utilizzava metodi sempre più efficienti. Un esempio di quanto fosse facile arricchire il privato a spese dello Stato è evidente in quello che si realizzò con la legge n.3048 del 27 aprile 1885. Per rendere omogenea la regolamentazione ferroviaria in tutto il territorio del Regno, si acquisirono gli altri pochi impianti fissi (stazioni e binari) che non erano ancora di proprietà dello Stato e si concesse l’esercizio di tutte le ferrovie a tre società private. Le Società di esercizio acquistarono tutto il materiale rotabile (locomotive, carrozze e vagoni) dallo Stato per 265 milioni di lire, somma su cui lo Stato si impegnò a pagare l’interesse del 5,79% annuo.
A tale riguardo l’economista, nonché parlamentare, J.Tivaroni, autore di “Storia del debito pubblico del Regno d’Italia” scriveva: «Che il venditore, oltre a consegnare la merce, debba pagare anche un interesse sul prezzo che ne riceve, crediamo che sia un contratto non frequente, il quale assume piuttosto il carattere di mutuo su pegno che di compravendita”.
Le tre Società concessionarie, alle quali era stato demandato il compito dello sviluppo della rete ferroviaria, a distanza di soli tre anni, presentarono l’aggiornamento del preventivo già concordato portandolo a 2431 milioni di lire (invece di 1260), di cui 821 già spesi.
Sempre l’economista Tivaroni commentava che in quegli anni: “Si sprecarono somme ingenti per costruire delle ferrovie, senza che avessero merci e viaggiatori da trasportare; per scavare porti senza navi da ospitare, per creare delle preture senza cause, degli impiegati senza lavoro, delle scuole senza scolari”.

Si aumentava allegramente il peso del debito pubblico tanto che “nessuno allora credeva che il nuovo Regno fosse tra i più poveri d’Europa, tanto è vero che i confronti fra le nostre spese pubbliche e quelle degli altri Stati venivano istituiti esclusivamente in base al manchevole criterio del numero degli abitanti e non della ricchezza relativa”.
Il deputato napoletano, Giuseppe Lazzaro, eletto nel vicino collegio di Conversano, scoraggiato dalla vista del rimpallo di responsabilità fra i vari ministri che si alternavano alla guida delle finanze e dallo scempio che veniva compiuto a danno delle casse dello Stato, così dichiarava in aula:
“A me pare che in quattro o cinque anni dacché stiamo qui riuniti, la questione finanziaria non ci abbia presentato null’altrochè una serie di illusioni, e per conseguenza una serie di disinganni; e si potrebbe ancora dire che i diversi Ministeri si sono demoliti gli uni e gli altri; i precedenti illudevano sé e il paese; ed i successori demolivano i primi mostrandosi illusi, aspettando gli altri che li demolissero a volta loro dimostrando il disinganno”

on. Giuseppe Lazzaro
Atti parlamentari, Discussioni della Camera

seduta del 13 aprile 1865 – pp.8694 ss.

Qualche anno dopo, lo stesso deputato campano, dopo aver sollecitato il governo ad utilizzare con più moderazione lo strumento delle imposte per le necessità della finanza pubblica, così sente rispondere il Ministro:
“L’On. Lazzaro dice: non siamo noi che abbiamo votato il macinato. In fatto d’imposte, per verità, non so che cosa abbiate votato. Credo che non ne abbiate votata alcuna. Avete solo votato le spese, e moltissime ne avete domandate. Ora io credo che realmente s’impongano aggravi ai contribuenti non quando si votano imposte, ma quando si votano spese. Siete quindi perfettamente solidali con noi nell’attuale situazione: e coloro che ebbero il coraggio di votare le imposte sono perfettamente giustificati a compiacersene, perché con ciò hanno salvato il paese”

Quintino Sella, Ministro delle Finanze
Atti parlamentari, Discussioni alla Camera,
Il dicembre 1872, pp. 3685-86

Questi gli’tagliani dei primi 40 anni.

continua…

Il “miracolo”economico del III Reich

LE CAMBIALI MEFO NEGLI ANNI 30 E IL PROGETTO DELLA MONETA FISCALE 

di Stefano Sylos Labini

Premessa
Sembra che la Germania stia operando per la disintegrazione dell’Unione Monetaria Europea: con la stretta sui titoli di Stato salterà tutto.

Credo che ci sia un tema importante, che bisognerebbe portare all’attenzione dei tedeschi. Ogni anno c’è il giorno della memoria, in cui si ricordano le atrocità del nazismo, ma in realtà bisognerebbe riflettere su che cosa ha determinato l’ascesa del nazismo e perché poi il nazismo ha trovato un grande consenso nella popolazione ed è stato in grado di lanciarsi nella seconda guerra mondiale con una forza industriale e militare spaventosa.

E la risposta è semplice: il Trattato punitivo di Versailles, che umiliò la Germania e la politica economica di Hjalmar Schacht, che permise di migliorare le condizioni di vita dei tedeschi e di ricostruire un apparato militare-industriale potentissimo. Attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, in cinque anni il Terzo Reich riuscì a trasformare un’economia in bancarotta, gravata da rovinosi obblighi di risarcimento postbellico e dall’assenza di prospettive per il credito e gli investimenti stranieri, nell’economia più forte d’Europa. In Billions for the Bankers, Debts for the People, Sheldon Emry ha commentato:
La Germania iniziò a stampare una moneta libera dal debito e dagli interessi ed è questo che spiega la sua travolgente ascesa dalla depressione alla condizione di potenza mondiale in soli 5 anni. La Germania finanziò il proprio governo e tutte le operazioni belliche senza aver bisogno di oro né debito e fu necessaria l’unione di tutto il mondo capitalistico e comunista per distruggere il potere della Germania sull’Europa e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri.

Debiti e depressione dell’economia: questi furono i problemi di ieri e sono i problemi che stanno mettendo in ginocchio il progetto della moneta unica. Oggi in Europa sarebbe necessaria una vasta alleanza per cambiare radicalmente l’impostazione della politica economica. Nel frattempo, prendendo ad esempio l’esperienza della Germania degli anni ’30, sarebbe auspicabile che il nostro Paese lanciasse la moneta fiscale a circolazione interna per aumentare il potere d’acquisto e quindi la capacità di spesa privata e pubblica all’interno dell’euro. Affinché la proposta della moneta fiscale abbia successo, essa dovrebbe essere promossa dalle forze economiche – sindacati, imprese e banche – attraverso un Patto per la crescita.

  1. L’economia della Germania tra le due guerre

Tra il 1933 e il 1938, dunque, si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, persino più significativo del tanto celebrato New Deal di F.D. Roosevelt, e questo miracolo fu promosso da Hjalmar Schacht che ricoprì sia la carica di presidente della Banca Centrale del Reich sia quella di ministro dell’Economia. L’obiettivo fondamentale di Schacht fu quello di eliminare la disoccupazione, e fino al 1939 ebbe carta bianca da Adolf Hitler. Ciò gli permise di gestire la politica monetaria e finanziaria del regime nazista in modo geniale e fuori dagli schemi.

In una lettera del 1° settembre 1938 ad Adolf Hitler, il ministro delle Finanze, conte Schwerin von Krosigk, scrisse:

Sin dai primi giorni di governo è stata coscientemente seguita la strada del finanziamento di grandi progetti per la creazione di nuovi posti di lavoro e per il riarmo, mediante l’assunzione di crediti. Quando ciò non era possibile col normale intervento del mercato dei capitali, il finanziamento veniva effettuato a mezzo di cambiali MEFO che erano scontate dalla Reichsbank.

La creazione di nuovi posti di lavoro dunque richiedeva una grande quantità di danaro di cui però non esisteva alcuna disponibilità. Poiché i crediti diretti allo Stato avrebbero messo a rischio il controllo della Reichsbank sulla politica monetaria, Schacht escogitò un sistema monetario non convenzionale. In questo sistema, i fornitori dello Stato emettevano ordini di pagamento che venivano accettati da una compagnia denominata Metallforschungsgesellschaft (MEFO, società per la ricerca in campo metallurgico), creata dal Terzo Reich per finanziare la ripresa economica tedesca e, nel contempo, il riarmo, aggirando i limiti e le imposizioni del Trattato di Versailles. Da qui l’origine delle cambiali-MEFO che erano garantite dallo Stato, potevano circolare nell’economia ed essere scontate presso la Reichsbank. In pratica, le cambiali MEFO rappresentarono uno strumento monetario parallelo, come lo potrebbero essere oggi i Certificati di Credito Fiscale. Con la ripresa dell’economia e il conseguimento della piena occupazione, le nuove entrate fiscali e la crescita del risparmio permisero allo Stato di riscattare le obbligazioni MEFO in scadenza senza determinare l’esplosione del debito pubblico (Schacht 1967).

«MEFO» era dunque l’acronimo riferito a una scatola vuota formalmente privata, dotata di un capitale di appena un milione di marchi e partecipata da Siemens S.p.A., Gutehoffnungshutte, Rheisenstahl S.p.A. e Krupp, in nome della quale vennero create obbligazioni senza gravare sul bilancio pubblico. Al riguardo, vi è chi ha sottolineato che non si trattò né di un diretto finanziamento monetario del Tesoro, né di un immediato aumento del debito pubblico. Tuttavia, tanto lo Stato quanto la Reichsbank ebbero un ruolo determinante perché autorizzarono le emissioni e diedero la garanzia. Così venne creato un meccanismo monetario in grado di fornire i capitali all’industria tedesca.

Prima di esaminare la politica economica del nazismo è opportuno ripercorrere le vicende più importanti degli anni successivi alla fine della Prima guerra mondiale. Nel 1921, in seguito al Trattato di Versailles, la cifra per le riparazioni della Prima guerra mondiale che doveva essere pagata dalla Germania fu quantificata in 33 miliardi di dollari. John Maynard Keynes criticò duramente il trattato: non prevedeva alcun piano di ripresa economica e l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato nuovi conflitti e instabilità, invece di garantire una pace duratura. Keynes espresse questa visione nel suo saggio The Economic Consequences of the Peace. Queste misure punitive furono all’origine di tutte le sciagure che seguirono – dall’iperinflazione di Weimar (1921-1923) all’austerità deflattiva del governo Bruning (1930-1932) – le quali generarono un profondo sentimento di rivalsa nel popolo tedesco, che si manifestò pienamente con il sostegno al nazionalsocialismo di Adolf Hitler.

Quando Hitler salì al potere nel gennaio del 1933, la Germania si trovava in una situazione economica disastrosa: oltre 6 milioni di persone (circa il 25% della forza lavoro) erano disoccupate e al limite della soglia della malnutrizione, mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con riserve monetarie ridotte quasi a zero. Ma, tra il 1933 e il 1938, si verificò una spettacolare ripresa dell’economia e dell’occupazione (si veda la Figura 1). E non furono le industrie d’armamento ad assorbire la quota più grande di manodopera: i settori trainanti furono quello dell’edilizia, dell’automobile e della metallurgia. L’edilizia, grazie ai grandi progetti sui lavori pubblici e alla costruzione della rete autostradale, creò la maggiore occupazione (+209%), seguita dall’industria dell’automobile (+117%) e dalla metallurgia (+83%).

Figura 1 – Andamento del PIL e dell’indice dei prezzi al consumo in Germania e in Olanda nel periodo 1922-1939 (tassi di variazione %). (Da: Mahe, 2012 ).

  1. La politica economica di Hjalmar Schacht e gli effetti MEFO

Schacht era fermamente convinto che il compito della banca di emissione consistesse nel mettere a disposizione tanto denaro quanto fosse sufficiente allo scambio di beni. Per questa ragione, scrive in The Magic of Money, tutte le leggi che regolano le banche di emissione hanno introdotto la cambiale a pagamento delle merci quale elemento fondamentale della loro politica. La cambiale-merci attesta la vendita e lo scambio di una merce; pertanto, Schacht riteneva che la concessione di crediti da parte della banca di emissione contro cambiali merci non comportasse alcun pericolo d’inflazione e difatti le voci attive della Reichsbank consistevano principalmente in cambiali a pagamento merci.

I fornitori dello Stato, dunque, iniziarono a emettere ordini di pagamento (tratte) che venivano accettati dalla società MEFO che pagava con «cambiali-MEFO». Trattandosi di forniture di merci, le cambiali MEFO erano effetti commerciali cui prestavano triplice garanzia i fornitori, la società MEFO e lo Stato, giustificando così il loro sconto presso la Reichsbank. I funzionari della società MEFO controllavano che tutte le cambiali fossero state emesse solamente per forniture di merci e non per altri motivi: a ogni cambiale MEFO era legato uno scambio di merci proprio per compensare la circolazione monetaria con quella di beni. Le cambiali, che normalmente erano a tre mesi, ricevevano dalla Reichsbank il permesso di rinnovo fino a 19 volte per un periodo complessivo di 5 anni. Ciò era necessario perché la ricostruzione economica avrebbe richiesto un certo numero di anni.

Con queste promesse di pagamento spendibili come il denaro ma unicamente entro i confini nazionali, gli imprenditori pagavano i fornitori. In teoria, questi ultimi potevano scontarle presso la Reichsbank in ogni momento e per qualsiasi importo a un interesse del 4% il che rendeva le cambiali MEFO non solo una «quasi moneta corrente» ma anche un denaro fruttifero che poteva essere ritenuto da banche, casse di risparmio e aziende. Non vi è dubbio che se gli effetti MEFO fossero stati presentati all’incasso massicciamente e rapidamente, oltre al rischio di inflazione, sarebbe diventato evidente ai paesi stranieri che la Germania stava incrementando le emissioni di moneta accrescendo i sospetti che la finalità fosse anche il riarmo. Ciò però non avvenne nel Terzo Reich poiché gli industriali tedeschi si servirono degli effetti MEFO come mezzo di pagamento fra loro: fino al 1938, in media, la metà degli effetti MEFO fu sempre assorbita dal mercato senza passare all’incasso presso la Reichsbank. Così queste obbligazioni diventarono una vera moneta a circolazione fiduciaria per le imprese che si protrasse per 4 anni, raggiungendo nel 1938 l’importo complessivo di 12 miliardi di marchi, con una media annuale di erogazioni pari a circa 3 miliardi l’anno.

Questa fu la mossa determinante che fece ritornare sotto il controllo politico la sovranità monetaria della Germania. Si realizzò in tal modo un mutamento fondamentale della strategia economica nazionale che permise allo Stato di riprendere in mano le leve del finanziamento dello sviluppo sostituendo la sua autorità a quella del mercato. Un esempio da manuale di come una politica di sostegno alla domanda finanziata da un’espansione monetaria non convenzionale abbia permesso all’economia di uscire dalla depressione e di conseguire la piena occupazione. La nuova moneta emessa dal Governo non produsse affatto l’inflazione prevista dalla teoria classica poiché offerta e domanda crebbero di pari passo lasciando i prezzi inalterati.

Schacht in The Magic of Money ha scritto:

L’economista inglese John Maynard Keynes ha studiato il problema dal punto di vista teorico e l’operazione MEFO ha dimostrato possibile la sua applicazione. Ma le condizioni alle quali l’applicazione del sistema può essere effettuata senza danno non sussistono sempre. Sussistevano in Germania nel periodo della depressione economica degli anni trenta quando mancavano del tutto le scorte di materie prime, le fabbriche e i depositi erano vuoti, le macchine erano ferme e sei milioni e mezzo di lavoratori erano disoccupati. Non si aveva a disposizione neppure capitale liquido risparmiato da poter investire. Con una produzione tanto limitata anche la produzione di nuovo capitale era evidentemente impossibile. Soltanto quando le inoperose ma ingenti forze produttive furono rimesse all’opera, fu possibile una rapida formazione di capitale. Questo capitale “sperato” fu, nell’operazione MEFO, anticipato dal credito. Mancando la produzione che con questo credito era stata avviata, l’esperimento MEFO sarebbe fallito. Il sistema MEFO non poteva essere un “perpetuum mobile”. Raggiunta la piena occupazione ogni altra concessione di credito avrebbe portato a eccedenze di circolante e all’inflazione. (pp. 160, 162.)

In un periodo di depressione erano proprio i fondi a mancare nelle casse delle imprese e Schacht sapeva che la prosperità della finanza internazionale dipende dall’emissione di prestiti con elevato interesse a nazioni in difficoltà economica. Gli economisti si sono chiesti come sia potuto avvenire il miracolo economico della Germania nazista e alla fine la risposta è stata che il sistema funzionava grazie alla fiducia che il regime riscuoteva presso i suoi cittadini e le sue classi dirigenti, una fiducia ottenuta non solo con la propaganda nazionalista e con il terrore, ma anche attraverso il progressivo miglioramento delle condizioni economiche della popolazione.

Un economista britannico, C.W. Guillebaud, ha spiegato in modo chiaro il meccanismo che consentì di rilanciare l’economia tedesca negli anni Trenta:

Nel Terzo Reich, all’origine, gli ordinativi dello Stato forniscono la domanda di lavoro nel momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio è inesistente; la Reichsbank fornisce i fondi necessari agli investimenti (con gli effetti MEFO che sono pseudocapitale); l’investimento rimette al lavoro i disoccupati; il lavoro crea redditi e risparmi grazie ai quali aumentano le entrate nelle casse dello Stato e si possono pagare gli interessi sul debito.

La ripresa dell’economia dunque determinò l’aumento delle entrate fiscali e la formazione di patrimoni che permisero di pagare le cambiali alla loro scadenza dopo 5 anni. Negli anni dal 1933 al 1938, le entrate dello Stato crebbero a oltre 10 miliardi di marchi. I mezzi per il pagamento delle MEFO furono largamente disponibili: a partire dal 1939 e per 5 anni vennero pagati annualmente 3 miliardi di marchi.

Hitler raggiunse così il suo scopo primario: il riassorbimento della disoccupazione e la crescita dei salari del popolo tedesco senza alimentare l’inflazione e senza far esplodere il debito pubblico. I risultati furono spettacolari per ampiezza e rapidità: nel gennaio 1933, quando Hitler salì al potere, i disoccupati erano oltre 6 milioni; a gennaio 1934, si erano quasi dimezzati e a giugno erano ormai 2,5 milioni; nel 1936 diminuirono ancora, a 1,6 milioni e all’inizio del 1938 non erano più di 400 mila. Fu questa ripresa economica ad accrescere il consenso di Adolf Hitler e a permettere, purtroppo, alla Germania di lanciare negli anni successivi una politica di riarmo ancora più massiccia che portò allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Schacht decise di chiudere l’esperienza delle cambiali MEFO nel 1938 quando la piena occupazione aveva iniziato a determinare i primi aumenti dei prezzi. Questa decisione fu motivata anche dal fatto che le banche, a causa della crescente richiesta di crediti e della conseguente scarsità di capitali, non furono più in grado di trattenere gli effetti MEFO in portafoglio e si videro costrette a presentarli sempre in maggior numero alla Reichsbank. Ma il Führer si oppose e il 19 gennaio 1939 estromise Schacht dalla carica di presidente della Reichsbank. Dopo la guerra Schacht fu processato a Norimberga, ma venne assolto dalle accuse di crimini contro l’umanità e cospirazione a danno della pace grazie alla sua seppur tardiva opposizione al regime. Morì nel 1970 a 93 anni.

Conclusioni

Considerando l’avversione del governo tedesco a qualsiasi forma di politica fiscale espansiva, il nostro paese deve procedere in modo autonomo per rilanciare la crescita ispirandosi proprio al miracolo economico della Germania negli anni trenta, un’esperienza che è stata completamente rimossa dalla memoria del popolo tedesco.

Siamo convinti che oggi un risultato analogo potrebbe essere conseguito con i Certificati di Credito Fiscale. Ovviamente, l’intervento che proponiamo tiene conto delle grandi differenze con gli anni trenta, prima fra tutte il peso molto più alto della spesa pubblica e della tassazione sul PIL nel periodo attuale (il 50% contro il 20% degli anni trenta). La nostra proposta della moneta fiscale si differenzia da quella di Schacht perché i MEFO bond circolavano solo tra aziende e pubblica amministrazione, mentre i CCF sono assegnati anche ai consumatori e hanno quindi un impatto sulla domanda finale.

Nel nostro progetto, dunque, viene dato ampio spazio alla crescita del potere d’acquisto delle fasce sociali più deboli e alla riduzione delle tasse sulle imprese, anche se non è trascurato il sostegno alla domanda (finanziamento dei lavori pubblici). Un’altra differenza sostanziale sta nel fatto che il valore monetario dei CCF viene garantito dallo Stato, che si impegna ad accettarli per il pagamento delle tasse al valore nominale dell’emissione, mentre nel progetto MEFO era la Banca Centrale del Reich che assicurava il valore monetario delle cambiali permettendo la conversione in marchi con un tasso di interesse fissato al 4% (1). Entrambi i progetti comunque sono basati sull’emissione di titoli a circolazione interna, paralleli alla valuta ufficiale (il marco degli anni trenta e l’euro al giorno d’oggi), e hanno lo stesso obiettivo: riportare l’economia in una situazione di piena occupazione (2).

È fondamentale, dunque, che il maggiore reddito disponibile generato dalle assegnazioni di CCF si tramuti in acquisti di beni e servizi per ottenere la massima espansione dell’economia e quindi del gettito fiscale per compensare le mancate entrate che si avrebbero quando i CCF giungono a scadenza. In questo quadro, si potrebbe immaginare che i CCF si possano convertire in euro solo quando vi è l’intenzione di comprare un bene di consumo o d’investimento. In tal caso, i CCF assumerebbero la funzione di «buoni merce» anche se questa opzione li renderebbe meno liquidi e quindi potrebbe provocare un aumento dello sconto sul mercato finanziario. Per questo si potrebbero studiare dei meccanismi per favorire l’uso diretto dei CCF senza che siano convertiti in euro dal momento che le imprese potranno aumentare le vendite ottenendo dei titoli con cui possono pagare le tasse sul territorio nazionale.

Infine, è cruciale stabilire un forte vantaggio nell’aliquota di assegnazione ai lavoratori con redditi inferiori, per esempio a 15.000/20.000 euro, i quali hanno un’elevata potenzialità di espandere i consumi. Le possibilità operative sono dunque molteplici e vanno considerate con la massima attenzione per valutarne i pro e i contro.

Note

1) Nel progetto dei CCF la conversione in euro avviene sul mercato finanziario (principalmente attraverso le banche private) con uno sconto che può variare, mentre il ruolo della Banca d’Italia è praticamente irrilevante.

2) I CCF, così come furono le cambiali MEFO, sono concepiti per il tempo che serve a riportare l’economia alla piena occupazione. Una volta raggiunto questo obiettivo, il sistema dei CCF può essere chiuso.

Il “coglionavirus” modugnese

Oggi, 2 aprile, si celebra la “giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo” dal link (http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=3695) del Ministero della Salute si apprende che in Italia un bambino su 77  viene “colpito” (brutta parola eh?) dallo spettro autistico. Qualche giorno fa a Modugno, cinque consiglieri di maggioranza: Maurizio Panettella, Innocenza Priore, Teresa Maiullari, Leonardo Del Zotti e Fedele Agostino, viste le restrizioni dovute al coronavirus, hanno avanzato la proposta di permettere ai bimbi autistici di utilizzare il parco San Pio, attualmente inibito ai cittadini modugnesi. Non sono mancati al riguardo alcuni “ruggiti” di tastieristi sul sito della “verità consolidata” del librodellefacce. Mica erano d’accordo, «c’è il pericolo  del contagio» a loro dire.

Ieri, un’altra magra figura dei “Mostri al Governo”, come tanti ammennicoli laterali maschili, uno da sinistra, l’altro da destra, litigavano sulla possibilità di concedere o meno a uno solo dei genitori di accompagnare, senza allontanarsi da casa, il proprio figlio a prendere aria. Manco fosse un abito da troppo chiuso nell’armadio. Nei giorni precedenti, sempre sul “librodellefacce che dicono l’unica verità accettabiledallamaggioranza, i ruggiti riempivano ogni angolo della “giungla del chi pesta più forte sui tasti”. Mica erano d’accordo, «c’è il pericolo del contagio», sempre a loro dire.

Alcune considerazioni:

UNO) In una rilevazione del Censis – Centro Studi Investimenti Sociali, (https://www.lastampa.it/la-zampa/2019/04/03/news/censis-nelle-case-degli-italiani-ci-sono-32-milioni-di-animali-domestici-1.33692224) pubblicata giusto un anno fa, veniva quantificato in oltre 32 milioni il numero degli animali “italiani, da compagnia”. In Italia il 52% delle famiglie ha almeno un animale come amico. Con 53,1 animali ogni 100 abitanti siamo secondi in Europa dopo l’Ungheria!; ci sono quasi 13 milioni di uccelli (in gabbia), 7,5 milioni di gatti addomesticati, 7 milioni di cani fedeli e circa 4,5 milioni di altri animali “casalinghi”, come conigli, criceti, pesci e rettili come tartarughe e camaleonti, fino ai più ingombranti boa e pitoni. Senza dimenticare il gran numero di “bestie feroci” – pochi leoni però, sparito da anni pure quello dell’”Azzurro” di Celentano, che non sapeva “dov’è” il suo. Le percentuali relative a questi amici di casa sono le seguenti;

a). 41 % uccelli;
b). 23 % gatti;
c). 22 % cani;
d). 14 % altri

Per tutti questi amici domestici, nel 2017, sono stati spesi, circa 5 miliardi di euro; 371,4 euro in media per 13 milioni e quattrocentomila famiglie che si avvalgono della compagnia di un animale in casa. i costi di mantenimento per questi “compagni” di casa è, ovviamente, diverso per ogni specie di “amico”; quello per i gatti, per esempio, è di circa 600 euro l’anno, mentre è tre volte di più, 1800 euro la somma necessaria per mantenere l’amico cane in casa.

DUE) Su Tuttitalia (https://www.tuttitalia.it/statistiche/popolazione-eta-sesso-stato-civile-2019/) è possibile rilevare che nel 2019 nelle case degli italiani vi erano 5.090.482 bambini di età inferiore ai 10 anni, due milioni in meno degli amici cani. I bimbi, egoisticamente tenuti in casa, costano mediamente oltre 9.000 euro per anno (https://www.metlife.it/blog/famiglia/2019/crescere-un-figlio-in-italia/) per un reddito medio famigliare di 37.500 euro/anno. Abituati come siamo, ormai, a dare importanza alle cose in base al loro costo finanziario, possiamo rilevare che un cane vale mediamente solo 5 volte meno di un bambino!!!.

TRE) Applicando, alla città di Modugno, le stesse percentuali nazionali elencate sopra, otteniamo questi numeri:

e). Numero famiglie modugnesi con animali domestici = 52% *15.000 (fam. Modugno) = 7.800;
f). Numero di famiglie modugnesi con amici cani = 22% * 7.800 = 1.716;
g). Bimbi età inferiore a 14 anni a Modugno 14,6% * 38.443 = 5.613 c.a. (http://www.comuni-italiani.it/072/027/statistiche/eta.html)
h). Bimbi autistici modugnesi: 1 su 77 = 5.613 / 77 = 73!!!

Con la speranza che siano molti di meno, concludo chiedendomi come sia possibile, lo dico con la morte nel cuore, che noituttimodugnesi  “stiamo” combinati così male.

Quando si dà, giustamente, ai proprietari dei 1.716 cani la possibilità di aggirarsi, ogni giorno e per più volte al giorno, per le strade cittadine, dagli animali incollatialletastiere non viene assolutamente presa in considerazione la possibilità che possano diffondere il maledetto virus che ci confina in casa. Invece sono pronti a ruggenti stronzate QWERTY se si prospetta la possibilità di fare “prendere l’ora d’aria” – il 41 bis di “casanostra” – ai  77 angeli ingiustamente colpiti dall’autismo, o agli oltre 5.600 bambini modugnesi chiusi in casa, insieme agli adulti di famiglia, per 24 ore –  ogni giorno da mesi ormai – e che corrono il rischio di essere contagiati, come tutti, proprio da quei loro genitori che magari sono stati infettati proprio dai coglioniurlanti da tastiera.

Dopo la quarantena sarebbe il caso che “noituttimodugnesi” ci autoaccusassimo di stronzaggine acuta.

Credo ancora oggi nell’Europa..che vorrei,

Non è una battuta leggera, è una sintesi che allevia il peso di una lunga discussione. Sono sicuro che come non lo è per me non lo è anche per tantissimi italiani. Dire come vorremmo che fosse e confrontare le diverse “visioni” sarebbe il venir meno dell’intenzione di non dilungarci in discussioni poco costruttive. Veniamo all’oggi. Il debito è originato dal credito, basato, questo, sulla fiducia; se non ti fidi non accetti promesse di futuri pagamenti. Il debito statale italiano di 2400 mld è “garantito” dal sistema paese nazionale, la cui ricchezza – fonti Istat/sole 24 – alla fine del 2017 (ultime rilevazioni utili) ammontava a circa 10.000 mld. Il 60% c.a. è detenuto dal 10 % più ricco, il restante 40 % (4.000 mld) è suddiviso fra il 50% più povero degli italiani, con poco più del 5% con il residuo 35% circa di proprietà di quella classe media che vede assottigliarsi sempre più questa “sua” quota a vantaggio del primo decile. In un mio recente articolo ho pubblicato una tabella con la quale ipotizzo una maggior tassazione della ricchezza (a qualcuno piace chiamarla patrimoniale) sui patrimoni più rilevanti. A pagarla sarebbero i possessori di patrimoni superiori a 200.000 € (valore quasi doppio del valore medio della “prima casa” italiana). Tale tassa porterebbe nelle casse statali circa 30 mld all’anno. Tenuto conto che in Italia i possessori di un patrimonio inferiore a 200.000 € sono oltre il 63%, non vedo chi, anche elettoralmente, non sarebbe d’accordo. Per quanto riguarda, e termino, i provvedimenti “urgentivirus” che il governo rimanda in attesa del “visto si faccia” della bancaeurotedesca, l’unico impedimento, detto in maniera banale, è dato solo dal vincolo – molto solido – che unisce in una ristretta élite sovranazionale i possessori di patrimoni ingenti e i detentori di ingenti pacchetti di voti elettorali; con i primi che spingono i secondi ad adottare provvedimenti economici che li avvantaggino finanziariamente. Un aumento dello spread, giustificato dalla manfrina “per favore me li dai? – e moh vediamo, aspetta…in cambio quanto mi dai di interessi?” inscenata questi giorni, tornerebbe a tutto vantaggio dei “manovratori di capitale” di cui sopra. Altri esempi? il tasso di resa del capitale superiore di 4-5 punti percentuali al tasso di crescita (PIL) e tassato meno del reddito da lavoro; mancanza di notizie certe sull’entità dei patrimoni finanziari e di partecipazione azionaria (quello relativo al patrimonio residenziale del decile superiore è inferiore al 10% del loro patrimonio); concorrenza, volutamente sempre sleale, dei bassi tassi sugli utili di impresa applicati da vari paesi (come l’Olanda) su tutti facebook, Google, Microsoft e tante altre multinazionali; segreto bancario nei paradisi fiscali; inesistenza di un unico regolamento fiscale che possa uniformare la tassazione della ricchezza in tutta l’Europa (almeno); ecc. Di esempi ce ne sono a iosa, cercarli senza alcuna lente colorata davanti agli occhi, non è difficile. Sarà banale ma è così. Non è difficile, il documentarsi renderebbe più facile la comprensione dei problemi che sono molto meno complicati di quello che crediamo. Ultimo esempio, banale, lo ammetto, è quello relativo al rapporto capitale/lavoro in Italia: 40/60; cioè per ogni euro di PIL la remunerazione del capitale oggi in Italia è di 40 centesimi; con l’incremento esponenziale di nuove macchine/utensili nei settori produttivi – ormai ridotti al 25% del PIL con il terziario/servizi al 75%, quindi meno incremento di “ricchezza materiale” e aumento della ricchezza finanziaria) tale rapporto è destinato a crescere sempre più velocemente a discapito del lavoro, destinato a diventare sempre più scarso e sempre meno qualificato.

Mi rendo conto dell’“allungamento”, e finisco davvero, anche se tanto altro si potrebbe scrivere ma forse è giunto il momento di allungarsi su di un divano, visto che le panchine sono vietate.

“a chi dobbiamo ricorrere?”

Sono convinto che quando il Manzoni scriveva di ciò che accadde ai milanesi durante la peste, non aveva lo scopo di descriverli come volgari assassini, colpevoli di aver linciato molti dei loro concittadini, ingiustamente accusati di spargere la peste perché, incautamente, avevano toccato in modo del tutto innocente gli abiti o le porte di casa altrui. L’obiettivo della sua opera erano i “signori” al governo di allora che oltre a non fare alcunché per evitare che tutto ciò accadesse, calpestando ogni forma di umana pietà, spinti dalla loro ignoranza e paura dell’epidemia e con la complicità di giudici altrettanto atterriti dalla malattia, avvallavano i linciaggi e addirittura erigevano, sulle macerie della dimora di un incolpevole “pseudo untore” quella che è diventata famosa come la colonna infame.

Oggi nella civilissima Modugno, e non solo, queste cose non si fanno più, la gente non rincorre più i presunti “untori” per dar loro una strapazzata, non si allarma più nemmeno se vede qualcuno che si soffia il naso e butta via il fazzolettino o tossisce guardando il cielo e “scatarrando” per strada. Siamo molto più civili, noi. Anche chi ci governa è diverso. Ci informano, non sempre bene ma ci provano; con esiti alquanto irritanti per noi a volte, come fanno quando ogni due giorni ci dicono che sono cambiate le modalità di come assicurare agli altri che non siamo contagiosi.

Ca…o però nessuno ci dice come fare o a chi “ricorrere” per segnalare che qualcuno sta male. Non lo sanno nemmeno loro.

Ecco quello che succede a Modugno e che mi è stato raccontato dalla persona che lo ha vissuto.

Ieri, un civilissimo modugnese ha postato quello che segue su una pagina social:

“Oggi sono uscito di casa per un motivo ben specifico e per una giusta causa (motivo? voleva comunicare il nominativo e l’indirizzo di un ammalato, suo vicino di casa).
Appena aperto il portone ho incrociato una pattuglia dei CC, ho fatto loro una segnalazione e dopo qualche secondo di titubanza mi hanno risposto che avrebbero allertato la polizia municipale.
Ho atteso per circa 1 ora…(che arrivassero i v.u.)
Nulla.
Mi sono deciso a parlare con la protezione civile (che ha allestito una grande tenda) fuori la posta, ho fatto la stessa segnalazione, risposta: “guardi noi non possiamo fare nulla, le conviene avvisare la polizia municipale, loro coordinano tutto qui a Modugno”.
Ok, perfetto.
Vado al comando, faccio nuovamente la mia segnalazione e con aria quasi a dirmi: “ma questo cosa vuole?”, mi rispondono di chiamare la protezione civile o i carabinieri.
Prendetelo come uno sfogo x ora…..
Volevo solo segnalare un probabile caso di contagio di un mio vicino nel condominio, che se accertato farà sicuramente di me una belva inferocita!
Credo che le persone con la divisa non la meritino tutti!

Tutto ciò fino a questa mattina quando, dopo una insonne notte passata a considerare i rischi di contagio condominiale ai quali sono sottoposti lui e i suoi figli, il civilissimo modugnese, ha telefonato al n° della protezione civile nazionale, il 1500, chi ha risposto gli ha suggerito, frettolosamente, visto l’alto numero di chiamate alle quali, presumibilmente avrebbe, o doveva, rispondere nello stesso modo, di chiamare la sede regionale competente. Chiamata la sede regionale pugliese della protezione civile, il gentilissimo ad-detto si è prodigato a spiegare al civilissimo modugnese che gli aveva elencato minuziosamente le tappe del suo tour telefonico, che visto che era arrivato là non gli rimaneva altro da fare che “chiamare il presidente Emiliano o in sua vece il sindaco Magrone”.

Questo civilissimo modugnese, che resterà tale fino a quando gli daranno la possibilità di esserlo, può certamente essere portato ad esempio da imitare. I “signori” al governo di oggi di sicuro non erigono nessuna colonna infame ma nemmeno possono essere un esempio da imitare.
La domanda però rimane, “a chi dobbiamo ricorrere?”